Pasquale Vitagliano su IL CULTO DEL DISORDINE di M. Macario
Se il disordine è l’ordine senza potere, come ha detto Léo Ferré, la poesia, forse, è la scrittura senza sintassi. Ne Il culto del disordine (Tabula Fati, 2025, nella collana diretta da Vito Davoli), antologia delle sue raccolte poetiche, Mauro Macario ci mette di fronte ad un tentativo esistenziale di poesia libertaria, cioè una poesia che usa la parole e il verso come viatico di liberazione umana.
L’effetto è immediato e tangibile. Per esempio, spontaneamente sono stato indotto a leggere il libro dalla fine verso l’inizio. In effetti, Lucrezia Lombardo coglie questa circolarità. D’altra parte, l’anarchia non è caos, tant’è che un altro motto è vietato vietare ma doveroso vietarsi. La poesia di Macario, infatti, è tutt’altro che spontanea e caotica. In un frangente d’epoca in cui tutti sembrano esordienti, Macario ha una storica (e che storia!). La sua poesia ha la leggerezza dei suoni, l’oralità di un’evocazione, nel suo svolgimento copre tutto il Novecento e ciò che resta è un nocciolo duro di significato essenziale e di forma pura, senza alcuna postura poetica.
Laura Cantelmo usa l’espressione di nomadismo artistico, che tuttavia non è mai espressione di precarietà, ma di ricerca permanente. E definisce la sua parola scritta phoné. L’eredità paterna e non solo si sente in questa caratteristica che fa di questa poesia canto senza canzone, oratorio senza predica. I miei fantasmi sono scappati/ non vogliono più abitare dentro i versi/ hanno scavato un buco nel tempo/ sono usciti dall’altra parte/ dove non c’è più l’autore/ con la metafora spianata/ a colpire vecchie storie. Tempo fa Marina Abraimovic realizzò una performance che chiamò L’artista è presente. Ma, secondo me, mancava l’arte. Siamo all’opposto, dunque. L’autore è retrocesso. Davanti a noi c’è solo la sua forma.
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